Paride Bianco – Tra unicità e silenzi

Importante appuntamento con la produzione degli Anni Ottanta dell’artista veneziano che ha fatto del senso dell’arte e del segno iconico una ricerca costante del suo “ostatismo” e della sua produzione passata e presente, a partire dal periodo della “Nuova Figurazione” all’astrattismo puro. Una lettura diversa, fuori dagli schemi e dalle convenzioni, del panorama dell’arte italiana degli Anni ’80, a testimonianza dell’operatività di una cerchia qualificata di artisti, credo riveli le sue origini nella nascita del movimento di grande contestazione giovanile, che al tempo stesso ne fu prodotto e ne espresse la crisi. Il messaggio del ’68 nell’ambito della cultura e dell’arte fu sintetizzato poco dopo nella parola “impegno”: la pittura impegnata doveva cioè risolversi in opere dal carattere politicamente pervasivo con marcate accezioni figurative Se si considera che negli ultimi trent’anni gli unici movimenti artistici che si sono innalzati ad un riconoscimento nazionale sono stati l’Arte Povera e la Transavanguardia, intrecciatisi in un reciproco riconoscimento, non era difficile prevedere l’affermazione di una logica di esclusione di quanto stava fuori da quel recinto (Di Mauro). Il tutto a danno di una fascia d’artisti di non indifferente qualità, emersa dall’anonimato, a partire dagli anni ’80. Sono artisti che rifiutano la freddezza imperturbabile del concettuale con un “ritorno alla pittura” di matrice neoespressionista, che rispolvera la manualità dell’antica “technè”, con citazioni di un passato anche remoto, riproposte e ricontestualizzate all’interno delle inquietudini della contemporaneità. Chi abbraccia questa ipotesi, a difesa della propria identità culturale e artistica precorre la “neo-contemporaneità” e, concretizzando il modus operandi di una progettualità futura e della propria etica professionale, finisce col pagare la propria originalità subendo i torti del mercato. La complessità dei linguaggi dagli anni 70 in poi situa perciò le arti figurative in una dimensione che determina uno scostamento del segno iconico verso le varie forme dell’astrattismo e del concettuale: è un ripercorrere le varie tappe dal punto di vista dei pittori che vivevano con pittori, che si chiedevano se nell’opera si dovesse guardare all’uomo con i sentimenti di cui è anima e che davano preminenza al “fare”. Si accendeva così il dibattito sul senso, ovvero sul “non-senso” in assenza di un segno significante, per riconoscere nel segno iconico l’unico che partecipa e concorre alla finalità dell’opera. L’appropriazione di un segno iconico è dovuta al sedimento che l’artista si costruisce negli anni di studio di forme anatomiche , della natura e del paesaggio, con un corredo d’impiego di colori che devono essere” veri”, cioè specchio delle categorie del reale. Su questo terreno la critica idealistica ha lasciato credere che affidarsi alla casualità, all’imponderabile, (dove si è assistito alla gettata del colore sulla tela, più che alla sua stesura) , fingendo che lo scarto ottenuto disorientasse un pubblico incapace di comprende, fosse l’unica via per il nuovo, sostenuta peraltro dall’aiuto di un critico sempre pronto a giustificare e ad incensare quello che neanche l’autore probabilmente aveva sempre chiaro. Nel “fare” che distingue ogni artista , espressione di un linguaggio che ne contrassegna individualità e personalità, c’è sempre necessariamente un collegamento paratattico, un procedere per strutture, un altrove possibile rappresentato dai capolavori di grandi artisti, a cui tutti in misura diversa ci si riferisce. Il fare esige l’impiego di una struttura linguistica ben conosciuta che si riflette nei tempi e nei modi con cui si opera col colore; esige attenzione, concentrazione e lucidità: pensare e decidere le stesure (quanta letteratura in merito!) richiede i tempi necessari; riflettere davanti all’opera in modo da dialogare con essa , permetterà anche al fruitore di passaggio di interagire, pur tuttavia facendo uso di “parole” diverse e di un diverso registro . L’abbandono della rappresentazione come metafora ( paesaggio e natura morta) espone l’arte a ricercare vie di senso che abbiano un’alta competenza nel fare. Negli anni ’80, artisti come Paride Bianco, un rappresentante significativo di una cerchia di artisti della “Generazione Anni ’40”, realizza quello che già ho avuto modo di codificare (1986) come “ostatismo”, un metodo che muove dal recupero del doppio senso del termine “struttura”, quello legato al sistema e ai concetti di pertinenza, commutazione, combinazione, per i quali l’opera vive la sua autonomia grazie al linguaggio; l’altra, d’impostazione filosofica, che mette in risalto i caratteri formali dell’opera, in due fasi distinte, ma complementari. Perché le strutture non sono cose inerti, né prefissate, né stabili; emergono in risposta ad una domanda precisa, ed è in relazione a tale domanda che viene stabilito l’ordine di preferenza degli elementi di una lettura necessariamente preferenziale, in rapporto alla totalità. L’ostatismo non procede per metafore, non tende alle essenze, non propone concetti, ma agisce a livello semantico e di significanti che l’artista fa emergere da un calco, interrogando gli anfratti e i grumi della superficie, combinati in elementi oggettivi reali. La funzione del calco è inizialmente determinante rispetto alla stesura finale dell’opera,in quanto è costruito con una presenza significativa del materiale e riscattato sulla tela o sulla carta da taches di colore spesso e coprente; sono significative di questa fase opere come “Sintesi ostativa”, “La battaglia di Anghiari” Ma già sul finire degli anni 1984-’85 l’affinamento della tecnica e l’intensa ricerca della risposta dei diversi materiali, che saranno una caratteristica costante del decennio, comincia ad imporsi via via in modo prevalente un segno iconico, che condurrà l’artista a realizzare delle opere dal cosiddetto periodo della “Nuova Figurazione”, all’astrazione pura, cioè con il ricorso e l’impiego di elementi geometrici. Ne sono un alto esempio le tele “Confluenza di morfemi” della collezione Pignoletti; “Engrammi e segni”, courtesy dell’artista. Sarà sempre il segno iconico a decidere i momenti significativi della sua ricerca e a farlo propendere per una composizione a dominanza coloristica (delle opere dei primi anni ’80) o segnica (della grande produzione di tempere e delle tele dall’85 al 92, delle collezioni Ferrarese-Grigolon, Ghibellini, Paoletti-Spaccasassi e nell’importante serie delle tempere degli Anni ’90), talora equipresenti in tele o carte su tavola di alto spessore artistico e lirico, come nell'”Omaggio a Schiele”, “Il Generale”, “La Giocondiade”, l'”Oratorio”, “Il Garda a luci rosse”. A partire dal decennio ’80 la ricerca ostativa di Paride Bianco riscatta dunque, attraverso l’accostamento della sintesi funzionale a una visone storicistica (temporale), l’insieme di macro e microstrutture che sono la realtà dell’opera, ma recupera soprattutto uno degli aspetti fondamentali: il processo di proiezione e di sublimazione di un singolo nucleo esistenziale, altrimenti precluso a una visione di semplice citazione storiografica.

Giuliana Donzello Storica dell’Arte