Chiamale, se vuoi, emozioni
“Introduzione a “Chiamale, se vuoi, emozioni”.
“La foresta si lascia vedere e si nasconde e proprio quello che si lascia vedere forma la barriera verde che
nasconde. Allora, come conoscere la foresta?
Perdendosi, per vedere oltre, con la vaga sensazione di un’atmosfera che ci circonda alla quale non
riusciamo a dare nome, la sensazione che la foresta non si esaurisca in quello che percepiamo, che
pensiamo. Allora, come raccontare questa cosa che eccede, che trascende? Alludendo, con una storia che
apra la strada o affrontando di petto la cosa, con il rischio di naufragare in un mare di parole?
O costruendo un enorme edificio, pietra su pietra, che ha nome cultura e nel quale la trascendenza,
qualsiasi cosa essa sia, prima o poi venga ad abitare” (Da “trascendenze”).
Non ci sono forse segnali, a volerli cogliere, che a quell’oltre alludono? La paura, ad esempio, la paura
immotivata che si annida nella notte.
“… ma, al calar del sole, al ritrarsi del clamore, nel silenzio popolato da sussurri, la notte ritorna simbolo. E il
cuore sa del mistero.
Solo una bolla di luce galleggia nella Notte. In essa la mia vita sta e con lei si sposta nel buio illuminando, di
volta in volta e portando in presenza quello che nella Notte eternamente è: lo sconosciuto tutto”. (Da “La
notte”).
O forse no. Forse le nostre forze sono inadeguate al compito, al desiderio. La morte, giocando a carte con
noi, ammonisce:
“… povero sciocco, cosa vuoi vedere con quei piccoli occhi che hai. Tu puoi vedere una carta dopo l’altra,
mano a mano che io la getto sul tavolo e subito la nascondo per darti l’illusione del movimento. E non
vedresti la successiva se io non uccidessi la precedente. Il mazzo intero non lo vedrai mai. (Da “Il gioco della
morte”).
Ma forse un giorno, di fronte a Dio:
“Vidi che in Lui si interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaterna”. (Dante,
citazione).
Una carta dopo l’altra, come i ricordi, carte già giocate e tornate chissà dove.
I ricordi che “… ancora, come fantasmi, testimoniano di giorni persi, come numerose piccole morti che si
succedono le une alle altre. Dove è finita la vita vissuta?” (Da “Ricordi sparsi”)
Eppure, “… come sarebbe che non c’è più? Se c’era, dove sarebbe finita? E lei … cosa ci sta a fare qui. A
custodire inesistenze! Ricordi su qualcosa che non c’è, sul nulla di un’esistenza sparita? A che serve un
ricordo di Ivana se Ivana non c’è? E se Ivana ci fu, per cui il suo ricordo ha un senso, dov’è finita? Lei, quella
che sta nel ricordo, non quella che è diventata … Finita nel nulla? Ma quale nulla, mi faccia il piacere! … Il
nulla, caro lei, non è un cassetto, il nulla è nulla e nel nulla non ci può mettere niente, nemmeno Ivana …”.
(Da “Ivana”)
Quindi, “Dibattersi tra ieri e oggi, tra destino e libertà, vita e morte, trascendenza e immanenza. Il dibattersi
di coloro che pensano, che osano pensare fuori o, almeno, a lato del pensiero comune, scontato, indotto.
Pensare da soli, pensare soli, quasi che la solitudine sia compagna inevitabile di coloro che pensano.
Compagna gradita, a volte; sottile dolore, a volte”. (Da “La solitudine”).
O, come il cavaliere solitario che appare dalla prateria, impugnare la Colt e imporre, con violenza sfrenata,
ordine e verità, quelli propri, là dove ordine e verità non sono. Poi sparire nella prateria, incontro ad altro
disordine, ad altra menzogna, in un gioco senza fine. (Da “The american dream”).
Infine:
“… a guardare bene, qualcosa qua e là luccica e non si capisce perché, come, quando. Cogliere quel tenue
luccichio richiede attenzione e disponibilità; descriverlo non si può, si può solo alludere, indicare un oltre il
reale che il reale già contiene, oltre i sassi e oltre i fiori, che quella tenue luce indica, verso cui ci invita.
Attraverso le emozioni, appunto, suscitate da storie, da poesie, o nate chissà perché. Le emozioni da
ascoltare in silenzio, nell’intimità, nella raccolta solitudine, come messaggi, tracce di infiniti nei quali,
dolcemente, naufragare”.
Arturo Falaschi.